“Poor Things” a chi???

Chi sono le “povere creature”? Quelle incapaci di adattarsi alle regole della buona società, di assecondare luoghi comuni, movenze, sorrisi e banchetti scanditi da momenti di ordinaria e monotona normalità? Sono le “marionette di legno” di Pirandello “sulle cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi”? O forse, “povere creature” impossibilitate a una rivalsa o, semplicemente, a una boccata di ossigeno e di libertà sono quelle ingabbiate da regole, dogmi e buone maniere in cui un Socrate qualunque si domanderebbe “buone per chi?” se la conoscenza del buono non è che relativa? C’è tanta filosofia, bellezza, comicità e libertà in Poor Things, film distribuito dalla Disney, diretto da Yorgos Lanthimos con Emma Store, Mark Ruffalo, Willem Dafoe, Ramy Youssef e Jerrod Carmichael, riadattamento cinematografico dell’omonimo romanza del 1992 di Alasdair Gray.

Vincitore del Leone d’oro a Venezia e del Golden Globe come miglior film e migliore attrice, candidato a 11 premi oscar, Povere Creature narra le sorti di una moderna Prometeo, una Frankenstein gotico-vittoriana che, dopo un tentato suicidio, viene salvata dall’eccentrico chirurgo Godwin Baxter che le ridona la vita trapiantandole il cervello del figlio che portava in grembo. La tabula rasa di un neonato, nel cranio di Bella Baxter, una donna adulta, genera curiosità, istinto, volontà e ribellione a tutta quella serie di costrutti sistemici che la società dei benpensanti impone alla protagonista. Fuggita dal castello incantato costruitole ad hoc dal suo “creatore” (quel luogo perfetto e “in bianco e nero” dove niente di male può accaderle… o forse proprio niente), Bella si ritroverà a scoprire i “colori”, i piaceri della vita, della carne, del nutrimento fisico e psichico dove, più che gli uomini o le donne lungo il suo cammino, saranno i pensieri, le dottrine, “l’amore per il sapere” che daranno alla protagonista un grandissimo slancio verso il nuovo, in una bulimia di luci, vestiti, città, conoscenze, atti sessuali ai quali lei non saprà sottrarsi, mai paga di quell’edonismo tanto additato dalla morale di cui lei non sente minimamente bisogno. Il suo percorso di crescita la porterà a scoprire il cinismo (magnifico il riferimento all’aneddoto tra Diogene il cinico e Alessandro Magno quando, interpellata dal suo amante Duncan Wedderburn, sulla sdraio di una nave, Bella risponderà “Spostati che mi togli il sole!”) e a turbare la sua fede nella scienza e nel progresso, nell’ottimismo che tutto può risolvere in balia di una conoscenza che sa di libertà, sarà la visione dell’altra faccia della società. Quella povera, affamata, incapace di reagire o di progredire, tagliata fuori da scale sociali alle quali non si può, più fisicamente che metaforicamente, accedere. Di fronte alla verità, la voglia di scoperta diventa più forte e di verità, Bella, ne pretende e conquista di nuove. Rientrata nella casa natale (attirata da un telegramma che le anticipa la malattia terminale di Godwin Baxter) la protagonista conoscerà le sue origini, l’uomo da cui scappava attraverso il tentato suicidio e riscriverà il suo finale. In un prodotto cinematografico che evoca continuamente il patriarcato, Bella compie una rivoluzione che spezza qualsiasi tentativo di cattura nei più tradizionali dispositivi di asservimento della donna, e si fa regista della sua vita.

Il film è ritmo allo stato puro (con una colonna sonora che stona e accompagna ogni singolo passaggio, sguardo o cambiamento in atto), è comicità, è una vera e propria opera d’arte con riferimenti alla pittura di Hyeronimus Bosch negli insoliti accostamenti degli animali che scorrazzano per i corridoi e i giardini di casa Baxter, ai quadri di Francis Bacon nei lineamenti perturbanti di Godwin (le cui cicatrici raccontano il folle ardimento scientifico del padre), a “La colazione sull’erba” di Manet, nella prima uscita pubblica di Bella. Al contempo, vi troverete performance attoriali ai massimi livelli con una Emma Stone in stato di grazia capace di essere, al contempo, istinto puro (nelle movenze da neonata riottosa a inizio film come in quelle da moderna All Blacks, nel ballo sulla nave), e razionalità disarmante, capace di mantenere la stessa identica espressione di insofferenza nei confronti di quel genere maschile a cui affida un finto tutoraggio, in un rovesciamento delle gerarchie sessuali e di genere, in cui il maschile si ritrova in perenne scacco rispetto al femminile, capace di scriversi da sé e solo da sé.


I am not a Barbie Doll

È svampita, bella, wasp, felice, bionda e inevitabilmente idiota. È tonica, curata, perfetta e assolutamente finta. Nel bere, nel mangiare, nel fare la doccia, nell’amoreggiare con Ken facendolo sentire importante o inutile sulla base di un sorriso. Insomma, Barbie è la rappresentazione della donna ideale che ogni imbecille vorrebbe avere accanto. Finchè non scopre di avere i piedi piatti, di provare emozioni negative e di avere, sulla coscia destra, una prima “scorza” di buccia d’arancia.

Nel prodotto agiografico su Barbie di Greta Gerwig, distribuito da Warner Bros, con Margot Robbie e Ryan Gosling (da oscar!)  assistiamo a un prologo che vede una “life in plastic” veramente “fantastic” dove al quinto “Ciao Barbie” stavo per uscire dal cinema in preda a un attacco idrofobo. Spinta a vedere questo film dallo slogan “Lei può essere tutto quello che vuole. Lui è solo Ken” e dalle tante recensioni che lo osannavano come  emblema femminista (“ma possiamo prendere a icona del femminismo il simbolo per antonomasia del capitalismo e dell’antifemminismo?”, mi chiedevo) mi reco al cinema, circondata da un’orda di pin up di rosa vestite. E vedo la Mattel ostentare il suo nobile intento di liberare le piccole bimbe-scimmia di un passato terroso (il riferimento a 2001: Odissea nello spazio è assai evidente) attanagliate da un patriarcato che le vedeva custodi di bambolotti creati per addestrarle a madri, creando Barbie: modello di emancipazione, bellezza, sicurezza e perfezione. Una donna che può essere tutto: fisica, scrittrice premio Nobel, Presidente degli Stati Uniti, emblema di inclusione e accettazione verso ogni forma di diversità dalla perfezione stereotipata.

Nella sua Barbieland, la Mattel costruisce un mondo surreale in cui ai vertici stanno le donne, raccontando alle sue Barbie, alle sue bamboline idiote, che tutte le donne possono tutto, anche arrivare ai ruoli di potere. E come lo fa? Ridicolizzando la figura degli uomini, toy boys, stupidi, inetti, capaci di pompare i propri muscoli e di decretare il buono e il cattivo tempo sulla base delle attenzioni che le bamboline di plastica riservano loro, in un femminismo (?) estremizzato che si impone sempre e comunque su qualsiasi spinta al machismo, al patriarcato becero. Una dominazione femminea che sovrasta qualsiasi forma di coalizione tra maschi attraverso strategie di seduzione, dove al grido di “Mostrati stupida così si sentirà importante per te e potrai distrarlo” le donne riescono a ottenere tutto. Il manifesto femminista (?) che racconta questo film è dunque: “Diamo importanza agli uomini, facciamogli credere che siamo idiote per riuscire ad andare avanti, a imporci su di loro”. A questo si aggiunge, nell’America post #MeToo, una sorellanza inverosimile che vede donne pronte a fare squadra di fronte a qualsiasi imposizione al servilismo derivante dall’altro sesso. Tutto questo, scandito, a intervalli regolari, da product placement e dettagli promozionali di ogni sorta sul merchandise Mattel.

Se il prologo del film riprende Kubrick, l’epilogo, con l’alba di una nuova coscienza rappresentata dal grande regista con un feto cosmico, viene demolito dalla Gerwig con quello che, per la protagonista, rappresenta l’unica possibilità di una nuova rinascita: se vi aspettate che la sua scalata ai piani alti di un edificio, la veda sostenere un colloquio per le alte cariche che ogni donna emancipata dovrebbe poter affrontare, rimarrete delusi. L’apice della realizzazione umana, per Barbie, è diventare, finalmente, una femmina. Con la vagina.

Per cucire addosso a una bambolina di plastica un vestito femminista non basta semplicemente tingerla di rosa. Non occorre osannarne gli slogan di un mondo senza profondità. In questo film a vincere è solo la Mattel che usa una donna oggetto (propria del maschilismo che finge di combattere) per la propria brand awareness.


Sgarbi, Morgan e la meritocrazia al contrario

Guidano come matti spericolati.

Ammazzano le loro compagne.

Mirano la prof e le sparano a colpi di pallini, postandone il video sui social.

Questa attualità violenta che dipinge le nuove generazioni come mostruose, le vede vittime innanzitutto di genitori protettivi, pronti a denunciare i giudicanti, i media, i “veri colpevoli” di fronte a una macchia sociale difficile da togliere. Pronti a chiedere scusa al posto loro. Ma ancora più vittime di modelli che, nella società moderna, innalzano a eroi quelli che fanno del trapping, dello “spacciare” la musica come sostanza stupefacente, uno stile di vita, con testi che rimandano al concetto di minaccia, con auto-tune dall’uso esasperato che rende sempre più robotiche e standardizzate le voci, non più alla ricerca dell’estensione, della perfezione vocale (che l’evoluzione non è qualcosa a cui ambire in questa società qui) ma all’elogio della criminalità e del disagio. Vittime ancora di più di una meritocrazia al contrario, che vede nei bulli della tv, dal giovane maleducato di Amici che risponde a tono a qualsiasi giudizio, a Morgan passando per Sgarbi fino ai rappresentanti al governo che usano grida e arroganza per ottenere consensi, una realtà a cui arrendersi: se sei carino, gentile ed educato. Se accetti le regole. Se attendi il tuo turno prima di parlare. Se rispetti gli altri. Tu non sei nessuno.

E allora smettiamola di colpevolizzare i ragazzi. Non c’è animale che riesca a crescere e svezzarsi se non per imitazione. Imitare l’adulto, gli adulti, osannati dai media, è il più grande errore a cui tutte le nuove generazioni, in questo momento storico, sono esposte. E se cambiare gli adulti non si può, possiamo, almeno, fornire libri, film, cultura e buoni esempi spegnendo definitivamente queste continue puntate di Black Mirror che i media ci propongono. Possiamo utilizzare il dialogo e il confronto per aiutare a discernere il bene dal male. Possiamo insegnare a fare mea-culpa senza cercare sempre e solo furbi escamotage per farla franca. Possiamo… Non lo so. Spesso mi viene da pensare che possiamo andare all’estero come se esistesse, da qualche parte, un mondo felice dove certe cose non accadono. E forse dovremmo viaggiare di più, ecco cosa possiamo fare. Viaggiare e cercarlo questo posto qui.


“Tre piani” di lettura per un caos troppo calmo

Ieri sera, dopo due anni di distanziamento forzato dalle sale cinematografiche, sono andata a vedere “Tre piani”, l’ultimo film di Nanni Moretti con l’eccellente Margherita Buy e diverse figure di contorno non troppo memorabili nell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo. Presenze come quella dello stesso Moretti, di Riccardo Scamarcio o di Alba Rohrwacher i cui contributi, nel corso del film, ricordavano moltissimo le caricature delle performance attoriali dell’amata Marchesini.

Ma andiamo per ordine: protagoniste del tredicesimo lungometraggio di Moretti sono tre famiglie che abitano in un edificio borghese, dove una finta quiete regna sovrana e le piante adornano passivamente l’ingresso della palazzina. Una forma di calma apparente, di caos calmo racconta, infatti, nell’affresco del regista romano, l’umanità che siamo: qualitativamente assente nella quantità di presenze a cui siamo sottoposti.

Le storie che si sviluppano attorno a ‘tre piani’, attorno a tre registri psicoanalitici da esplorare (per dirla alla Freud), sono quelle di tre famiglie: quella dell’ES (l’istinto), rappresentata da Scamarcio: un padre che proietta i suoi impulsi sessuali nella condanna del vicino a cui attribuisce la presunta violenza alla figlia. Quella dell’IO, rappresentata dalla Rohrwacher, una madre alle prese con un figlio appena nato, un marito assente e un principio di realtà troppo grande da vivere in solitudine, dove l’opposizione tra ES e realtà esterna sfocia in pazzia. E quella del Super Io, l’area del controllo, delle regole, del divieto, rappresentata dal Moretti, giudice giudicante in tribunale ma soprattutto in casa, con un figlio condannato a sbagliare da un giudizio che si scaglia contro di lui, a prescindere.

Il film è bello. Ritmato. La rappresentazione delle donne eccellente. Il cast migliorabile. Le scelte registiche spesso indecifrabili con tentativi di emulazione del simbolismo Sorrentiniano (nell’attacco di un centro di assistenza agli immigrati da parte di una folla di squadristi), della spettacolarità di Özpetek (nella scena del corteo di ballerini per strada, sul finale) e di Čechov. Ma su quest’ultima scelta non posso che tessere le lodi di Moretti: tutte le scene in cui il dialogo è assente (così come insegna il drammaturgo russo) e in cui vivono solo la forza degli sguardi, dei silenzi e delle ‘evoluzioni’ dei personaggi (mi riferisco ai primi piani dedicati a quella Buy che da sola vale tutti i “Tre Piani”) regalano un crescendo di emozioni che rendono questo film assolutamente da vedere nella sua necessità di perdonare e perdonarsi in un mondo in cui sembra che non possano esistere che vestiti e maschere scure, ma in cui si può sempre sperare in un finale a colori.


“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon

“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon è un gioiellino. Leggendolo, mi sono tornati in mente alcuni passaggi de “Il Piccolo Principe” così come molte scene di “Forrest Gump” legate alle molteplici problematiche gratuite che ci poniamo noi ‘adulti normalizzati’ e ancora mi chiedo come possa aver trovato questo piccolo capolavoro al Libraccio. Come abbia potuto, la gente, separarsene…

La voce narrante è quella del protagonista, il 15enne Christopher Boone, un ragazzo meraviglioso con una diagnosi di sindrome di Aspenger. Nei vari passaggi del ‘suo’ giallo, Christopher ci mostra il mondo da suo punto di vista, il suo mondo di regole perfette dove, se passano 5 macchine rosse di fila, allora sarà una giornata straordinaria, mentre se ne passano 5 gialle, la giornata sarà nera. Un mondo dove non si possono mangiare ingredienti che si toccano fra loro o che siano di colore giallo o marrone. Un mondo dove non sono previste intuizioni. Tutto ha una logica matematica che gli umani non capiscono con le loro regole prive di regole, dove tutto è una bugia gigantesca e non si può dire che si stia male quando si sta male, ma si deve rispondere “tutto bene”, e i vecchi non si possono chiamare “vecchi” e se una persona puzza non si può dire che puzzi. E si devono decifrare i sospiri perché possono significare mille cose, così come le frasi perché, anche se non si alza la voce, alcune volte possono dimostrare rabbia, altre perplessità, o. E si usano addirittura le “domande retoriche” e le “metafore” per complicare ancora di più tutto quello che, già di suo, è una grossa e complicatissima bugia.  

Christopher  ama la matematica, gli scacchi e Sherlock Holmes. Ama osservare le cose ovvie che nessuno si cura mai di osservare, cogliendone i particolari. E se qualcuno, dopo avergli mostrato un recinto di mucche gli chiedesse come sono fatte le mucche, lui risponderebbe “A quale mucca fai riferimento di preciso?” perché sarebbe in grado di descriverle, una per una, con minuzia di particolari su macchie e posizionamento delle stesse, quelle mucche lì.

Christopher  non ama il contatto fisico per cui, se vuole abbracciare una persona le sfiora le dita della mano aperte a ventaglio e per rilassarsi fa calcoli matematici, calcola numeri alla seconda o alla terza o gioca ai Soldati di Conway. Gli piacciono le regole e gli orari che gli impediscono di perdersi nel tempo e vorrebbe che esistesse un mondo in cui tutti possano vedere le cose dal suo punto di vista o sperare di diventare un astronauta e di andare nello spazio o in un sommergibile sferico in fondo al mare, per poterci vivere da solo senza tutto questo finto rumore, attorno.


Immobilismo da Covid-19: quando la responsabilità di Jonas ebbe la meglio sulla speranza utopica di Ernst Bloch

Negli sguardi diffidenti della gente, nel suo andamento veloce, schivante e schifante, nel silenzio e nell’apparente quiete, nei tram, negli autobus e nelle poche presenze che continuano a girare col loro passo serrato si rispecchia un periodo, quello in corso, quello trascorso, quello a venire, che sembra rispecchiare appieno la concezione filosofica e, oggi, attualissima, di Hans Jonas. Con il suo “Principio responsabilità”, il filosofo tedesco di origine ebraica, nel 1979 demoliva l’audace e utopistico “Principio speranza” di Ernest Bloch, affermando che “la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici”.

Si sviluppava, così il principio filosofico cardine di un’etica razionalista applicata in particolare ai temi dell’ecologia e della bioetica, un’etica che premiava l’immobilismo responsabile e la cultura del pensiero attivo e della conseguenza premonita alla corsa utopistica Blochiana.

Ne Il principio speranza, Bloch aveva mostrato, infatti, come la coscienza anticipante dell’uomo si manifesti nei sogni, nelle aspirazioni che caratterizzano la vita quotidiana, nel mondo fantastico delle favole, dei film, dei racconti, degli spettacoli teatrali. Come se l’uomo non fosse definibile ontologicamente nella sua staticità presente ma come non-essere-ancora. Da qui il suo motto “Ai piedi del faro non c’è luce”, un monito a reagire all’immobilismo, guardando sempre avanti, proponendosi un obiettivo da raggiungere in quanto “intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c’è ancora, cercando e costruendo nell’azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare – incipit vita nova”.

E così, in questo eterno dibattito bioetico tra il presente immobile e responsabile e il futuro utopico da costruire a tutti i costi, siamo stati costretti a seguire la lezione di Jonas.

E dalle canzoni sui balconi, dalle partite a tennis giocate tra i terrazzi, dai compleanni festeggiati alle finestre e dalle lenzuola bianche tappezzate di “Andrà tutto bene”, principi speranza focalizzati sull’utopia di quella luce distante dal faro, ancora visibile e raggiungibile, siamo stati costretti a passare inesorabilmente al secondo lockdown quando il silenzio è caduto sull’Italia e sull’anima degli italiani. Lo sforzo è stato sostituito dalla resa. I programmi dai rimandi, gli indicativi dai condizionali. E tutti si sono fermati, là dove si trovavano. Che dove non c’era nulla, nulla è rimasto. E dove c’era qualcosa, i licenziamenti hanno creato il nulla. E tutti hanno ritrovato le loro case, le camere da letto, i libri non finiti, i letti da rassettare, i mobili da restaurare, i passatempi da giocare. Tutti si sono presi il tempo. Hanno cominciato a sentirlo, scandito dai rintocchi degli orologi, di campanili finalmente protagonisti di un ‘fuori’ silente. E in questa quiete tanto ambita nelle giornate frenetiche del passato, il principio di Jonas ha finalmente trovato il suo presente. Ora che le uscite improvvisate, gli assembramenti nascosti ci rendono empiricamente consapevoli delle conseguenze a cui ognuno di noi potrebbe andare incontro, siamo tutti colpevoli se ci muoviamo. E colpevoli se programmiamo. Perché niente è programmabile. Niente si può muovere finché tutto questo rimanere sospesi non sarà finito e questa proiezione al futuro si continuerà a chiamare ansia.

Ma non possiamo chiudere un articolo del genere in questo modo, non vi pare?

Bloch sosteneva che l’utopia e la speranza danno all’uomo la possibilità di anticipare quel futuro dove l’uomo stesso realizza la sua intima essenza, ma il vero futuro deve essere nuovo, non può essere qualcosa di predeterminato nel passato e nel presente così da essere prevedibile in modo del tutto certo. E allora rassettiamo i letti, finiamo di leggere i nostri libri, restauriamo i mobili e poi riprendiamo a sperare. Che se anche la speranza è continuamente sottoposta al rischio, all’incertezza, all’ennesima pandemia, alle regioni rosse, alle cadute di governo, ai licenziamenti, ai dispiaceri, alle perdite, essa deve continuamente lottare per il futuro-nuovo, quello post-covid. E stare sul fronte. Prima che presto sia troppo tardi per ricordare come si fa. A sperare. 


La Signora Dalloway

“Come una nuvola attraversa il cielo, così il silenzio cade su Londra, e nell’anima.
Ogni sforzo cessa.
Il tempo sbatte stanco dall’albero maestro.
Dove ci troviamo, ci fermiamo.
Rigido, lo scheletro delle abitudini tiene su da solo la struttura umana”
.

Ho sempre temuto la Woolf rimandando la sua lettura a tempi più maturi. Adesso ho letto “La signora Dalloway” e mi chiedo perché abbia sprecato tutti questi anni. Nonostante in questo libro non ci siano conflitti da superare o troppe regole di scrittura convenzionale rispettate, trovo che Virginia Woolf sia un genio. Le sue descrizioni sono pura poesia e leggerla é stato il più grande esercizio di scrittura che abbia mai fatto.


La novella degli scacchi

Dopo aver visto “La regina degli scacchi”, questo gioco è diventato la mia ossessione. Oltre al gioco in sé, quello che mi ha colpito, ciò per cui continuo ad allenarmi e a documentarmi, è l’abitudine alla pazienza qualcosa che, personalmente, non conoscevo e che, a livello terapeutico, si sta rivelando un toccasana per la sottoscritta. Ne parlavo l’altra sera con la mia amica Maria Elena: “Non si tratta semplicemente di un gioco”, le dicevo. “Ci sono dei pezzi e, ognuno di essi ha determinate regole o mosse da poter seguire. E lo scopo, sebbene sembri quello di uccidere il re (l’etimo del termine ‘scacco matto’, infatti, deriva dal persiano شاه مات‎, Shāh Māt che significa “il re è morto”) sta nell’attaccare continuando a difenderti. Che se ti difendi e basta perderai sicuramente. Ma se attacchi senza pensare alla difesa, il re è morto. È una sorta di triste metafora della vita in cui non andranno mai avanti quelli che giocano in difesa, ma quelli che attaccano continuamente senza fidarsi di chi hanno di fronte. E per riuscire a fare tutto ciò e a farlo bene, non si può certo azzardare, o prendere decisioni affrettate. Serve abituarsi alla pazienza“.

Dopo quella chiacchierata, Maria Elena mi ha regalato “La novella degli scacchi” di Stefan Zweig. Questo piccolo gioiellino narra la storia di Mirko Czentovič, campione di scacchi a livello mondiale con grandi problemi di acquisizione cognitiva che sfiorano l’analfabetismo rendendolo un misantropo grezzo, chiuso, altezzoso e avido che, su un piroscafo diretto da New York a Buenos Aires incrocerà il signor B, vero protagonista della vicenda. Nel corso del viaggio, i passeggeri, incuriositi dal carattere schivo e freddo di Czentovič, decidono di sfidarlo a scacchi per riuscire a carpirne i tratti di quella personalità tanto schiva. Il campione del mondo vince con facilità contro tutti, fino a quando, in una situazione di gioco disperata, non interviene il signor B, uomo intelligente e colto che, suggerendo alcune mosse ai giocatori, riesce ad impattare l’incontro

Una volta venuti a conoscenza di quell’uomo capace di anticipare le mosse del campione del mondo, gli ospiti del piroscafo cercano di convincerlo a partecipare a un incontro con Czentovič. E se dapprima la risposta è un rifiuto, dopo il signor B accetterà la sfida motivando la sua iniziale titubanza attraverso un racconto appassionato e angoscioso che va fatto risalire all’epoca nazista, a un periodo di detenzione in mano alla Gestapo in cui, attraverso il tentativo di una totale demolizione fisica e psicologica di B, costretto a vivere in una stanza vuota con “un tavolo e un letto e un catino e una tappezzeria” i nazisti cercavano di estorcergli informazioni sulle sue attività professionali. Una fase della sua vita durata troppi mesi in cui a salvarlo o a condannarlo per sempre, ci furono gli scacchi. Dopo aver rubato, infatti, dalla tasca dell’uniforme di un ufficiale tedesco un libro contenente 150 partite tra campioni, B imparerà tutte le strategie di questo gioco e come, da queste, riuscire a sfidare se stesso, a mente. Una sfida tra la propria parte bianca e quella nera che rasenta la follia, in attimi in cui alla pazienza di un sé, si contrappone l’impazienza dell’altro sé e dove l’intera realtà sembrerà essere rappresentata da una partita a scacchi da cui B riuscirà ad uscire ritrovandosi in una clinica dove, liberato dal nazismo con la promessa di emigrare entro due settimane, dovrà promettere al suo medico di non giocare più a scacchi. 

Dopo questo racconto, B accetterà di giocare contro Czentovič a patto che quella sia la sua prima e ultima partita. Ma a quell’incontro ne seguirà un altro e la frenesia patologica da cui era affetto B tornerà a ripresentarsi nella sua vita fino a quando questi non deciderà di arrendersi. Di lasciare la partita incompiuta, di rinunciare alla lotta contro l’avversario o, forse, contro se stesso. Dopo aver scritto questo romanzo Zweig si suicidò. Nel suo libro ritroviamo la prefigurazione di una sconfitta dell’intelligenza, della cultura e della sensibilità ad opera di un analfabeta ottuso. I richiami alla disfatta dell’Europa per mano di Hitler in questo parallelismo tra colti e rozzi, sembra evidente. Peccato che Zweig non ebbe la pazienza di restare in vita a vedere se Hitler l’abbia poi vinta davvero quella partita lì.

Voto: 3 su 5


Dolores Claiborne

Dolores Claiborne è un libro di Stephen King che racconta, a mo’ di monologo-confessione, la vita di Dolores, un’anziana donna del Maine che, sulla soglia dei 66 anni, si ritrova a fare i conti con la giustizia, accusata di aver ucciso Vera Donovan, la ricca invalida di cui era governante. In un susseguirsi di flashback, la protagonista ripercorrerà tutta la sua vita. Una vita segnata da violenze, umiliazioni e angherie inflittele dalla padrona a cui Dolores rimane fino alla fine e paradossalmente devota, e dal marito, un ubriacone, ignorante dalla fronte liscia e poco altro di buono da ricordare. Un uomo scomparso misteriosamente trent’anni prima e ritrovato cadavere con parecchi interrogativi ancora aperti.

Ho cominciato a leggere King due estati fa. Dopo Misery, lo scorso anno, mi sono avventurata nella lettura di IT, quello che considero un capolavoro di stesura e montaggio, un perfetto manuale per chi volesse imparare a scrivere un libro. Ho trovato Dolores, totalmente differente dai ’soliti’ libri attribuibili al Re. Nessun riferimento al paranormale, niente mostri o scene horror. Quella che ho divorato in poco più di due giorni, è un’ammissione di colpe lunga 267 pagine: la colpa di aver sposato l’uomo sbagliato, di averci fatto dei figli. Di non aver visto gli abusi nei confronti della figlia. Di averlo ucciso. Di non averlo detto. La colpa di aver deciso di accudire una ricca incarognita e di non averla ascoltata fino in fondo. O di averla ascoltata troppo bene, incarognendosi a sua volta. La colpa di aver trovato nel male, nella ribellione solitaria, l’unica forma di giustizia pensabile. 

A fine libro, credo che nessuno possa condannare Dolores. Non credo che lo si possa fare. In lei, nel suo amore divenuto violento, nella sua voglia di proteggere i figli, la padrona e tutto quanto le fosse caro, si rispecchia la voglia di proteggere se stessa dopo una vita straziata da ferite, da notti insonni e dalla solitudine, diretta conseguenza di tutto quanto è stato da lei, e da tutti, taciuto.

Voto: 3 su 5


La vasca del Führer

La vasca del Führer è il ritratto romanzato della vita di Elizabeth (Lee) Miller, scandito in 242 pagine di descrizioni fotografiche dalla penna di Serena Dandini. Un libro sull’emancipazione femminile che non segue mode o rivoluzioni femministe, che non sfida dogmi, patriarcati e misoginie ma che, esattamente come in un quadro realista, dipinge quello che Lee Miller è stata: una modella (prima per il padre, poi per i favori del pubblico grazie a un incontro fortuito con Condé Nast), una fotografa di moda e di guerra per Vogue ma, soprattutto, una donna completamente libera di percorrere la propria vita e poi di cambiarla e di stravolgerla a suo piacimento. 

Non avevo mai letto un libro della Dandini (che amo come conduttrice televisiva) né conoscevo la straordinaria storia della Miller ma, malgrado le premesse, ho fatto una fatica incredibile a portare a termine la lettura di questo libro (nonostante ne divori notte e giorno di più lunghi e ‘pesanti’). Partiamo dal titolo: credo che “La vasca dal Führer” sia lo specchietto per le allodole migliore che si potesse scegliere per attrarre, sia a livello visivo che immaginativo, l’attenzione dei lettori su quello che non è assolutamente, o non solo, un libro sulla seconda guerra mondiale e sulle atrocità dei lager da cui ripulirsi, provocatoriamente, in una vasca. Questa scena, quella della Miller nella vasca dell’appartamento nel quale Hitler incontrava Eva Brawn, rappresenta l’1% della storia. La storia di Lee, della sua vita mondana, dei suoi incontri con gli artisti, i fotografi, gli editori e i registi più famosi dell’epoca e delle sue passioni amorose e non, mai appaganti.

La vicenda viene raccontata come una biografia narrata in terza persona dove la terza persona, però, non sembra essere la Miller ma la Dandini. Dal ritrovamento delle foto della protagonista alla visione del suo unico cameo al cinema, i commenti dell’autrice del libro prendono il sopravvento sulla vicenda amorosa, professionale e artistica della Miller lasciando il lettore perplesso e, pressoché, infastidito da questi continui parallelismi tra la vita di Lee e quella di Serena. Al contempo, questo insinuarsi, da parte della Dandini, nei pensieri della Miller, questo suo raccontarne i dialoghi, le decisioni, le aspettative, le lettere mai scritte o le frasi non dette, falsa il genere rendendo il romanzo pura fantascienza. 

Tutto quello che rappresenta la Miller, dalle sue nudità immortalate da piccola dal padre alle sue pose per Vogue passando per i suoi scatti da fotografa, non hanno alcun tipo di immagine a supporto per cui, nel corso di tutto il libro, si è costretti ad accedere a Google sperando che il motore di ricerca rintracci, tra parole chiave improvvisate quando i titoli delle foto latitano, le immagini descritte.

Infine, la libertà sessuale della protagonista, sottolineata e rimarcata ad ogni capitolo, più che idealizzare la Miller a ruolo di antesignana di ciò che ogni essere umano debba essere e possa fare, sembra etichettarla come colei che, quando nessuno poteva, osava fare certe cose. Io credo che la vita di Lee Miller, dovrebbe essere studiata come esempio di caparbietà e determinazione. Come la rappresentazione reale di quel concetto filosofico per cui “Ai piedi del faro non c’è luce” e solo ponendosi sempre un obiettivo, davanti, si possa vedere la luce. Che in tutto questo cammino lungo la propria vita, si tradisca il marito, si faccia sesso ammanettati o si venga cornificati, non credo abbia troppa importanza. Né credo che queste curiosità intime arricchiscano il termine ‘libertà’ di chissà quali significati.

Voto: 2 su 5